Il mondo della cultura e del fotogiornalismo è scosso da due vicende parallele che, come fiumi carsici, riemergono dal passato per mettere in discussione certezze consolidate e sollevare interrogativi sulla memoria, la verità e la custodia del nostro patrimonio visivo. Da un lato, la luce abbagliante di Netflix illumina i dubbi decennali sulla paternità di una delle fotografie più iconiche del XX secolo, “The Terror of War”, meglio conosciuta come “Napalm Girl”. Dall’altro, l’ombra di un mistero avvolge l’eredità di un altro gigante della fotografia di guerra, Al Rockoff, con la sconcertante scomparsa del suo archivio personale.
Il Caso “Napalm Girl”: Un Pulitzer in Discussione
Una bambina di nove anni, nuda, corre urlando su una strada del Vietnam, con la pelle devastata dal napalm. Questa immagine, scattata l’8 giugno 1972 nel villaggio di Trang Bang, ha definito per generazioni l’orrore della guerra del Vietnam, contribuendo a plasmare l’opinione pubblica mondiale e valendo al fotografo dell’Associated Press, Nick Ut, il prestigioso Premio Pulitzer nel 1973. Oggi, a oltre cinquant’anni di distanza, quella certezza vacilla.
Il documentario “The Stringer: The Man Who Took the Photo”, del regista vietnamita-americano Bao Nguyen, presentato al Sundance Film Festival e ora destinato a un pubblico globale grazie all’acquisizione da parte di Netflix, porta alla ribalta una tesi dirompente. La pellicola sostiene, attraverso un’indagine durata due anni e guidata dal giornalista Gary Knight, che il vero autore dello scatto non sia Ut, ma un fotografo freelance vietnamita quasi sconosciuto, Nguyen Thanh Nghe. Nghe, all’epoca, lavorava come autista per una troupe della NBC e vendeva le sue foto come “stringer” all’Associated Press.
La scintilla della controversia è stata accesa dalla testimonianza di Carl Robinson, ex photo editor dell’ufficio AP di Saigon, il quale ha confessato che fu lui a ricevere i rullini da diversi fotografi quel giorno, e che l’allora capo fotografo Horst Faas decise di attribuire lo scatto a Nick Ut, dicendo specificamente “make it Nick Ut”. Il documentario non si limita a raccogliere testimonianze, ma impiega anche analisi forensi e ricostruzioni dettagliate per dimostrare come la posizione di Nghe sulla scena fosse compatibile con l’angolazione della celebre foto, a differenza di quella di Ut. La World Press Photo, che nel 1973 premiò l’immagine, ha persino sospeso l’attribuzione a Nick Út in attesa di ulteriori chiarimenti, una decisione senza precedenti.
La reazione non si è fatta attendere. Sia Nick Ut, che si è sempre definito un eroe nella sua comunità, sia l’Associated Press hanno fermamente respinto le accuse, definendole infondate. L’AP ha condotto una propria indagine interna di sei mesi, parlando con testimoni oculari che confermerebbero la versione di Ut, e ha accusato la produzione di “The Stringer” di aver ignorato le testimonianze non conformi alla loro tesi. Lo stesso Ut ha intentato una causa per diffamazione contro gli autori del film. La vicenda solleva questioni profonde sull’etica giornalistica, sulla difficoltà di ricostruire la verità a decenni di distanza e sul valore della parola contro l’analisi tecnica in un’era di profonda riflessione sull’autenticità delle immagini.
Il Giallo dell’Archivio di Al Rockoff: Memorie Perdute
Parallelamente, un altro dramma si consuma lontano dai riflettori di Hollywood, ma con implicazioni altrettanto profonde per la storia del fotogiornalismo. Al Rockoff, il leggendario fotoreporter americano la cui audacia nel documentare la caduta di Phnom Penh e gli orrori dei Khmer Rossi in Cambogia è stata immortalata nel film premio Oscar del 1984 “The Killing Fields – Urla del Silenzio” (dove il suo personaggio fu interpretato da John Malkovich), è al centro di un mistero.
Oggi 77enne, Rockoff convive con le profonde cicatrici psicologiche della guerra, tra cui una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico, problemi di rabbia e vuoti di memoria che rendono difficile ricostruire il suo stesso passato. In questa sua condizione di vulnerabilità, il suo bene più prezioso, l’intero archivio di negativi e stampe, è scomparso dalla sua casa-magazzino in Florida.
Le versioni sulla sorte di questo inestimabile patrimonio sono discordanti e gettano un’ombra inquietante sulla vicenda. Secondo l’ex moglie di Rockoff, Victoria Bornas, che continua a prendersi cura di lui, un collezionista di cimeli del Vietnam di nome Brad Bledsoe avrebbe approfittato delle precarie condizioni fisiche ed economiche del fotografo per convincerlo a cedergli l’intera collezione. Un atto, secondo gli amici di Rockoff, avvenuto senza un consenso pienamente informato, data la sua condizione.
Dal canto suo, Brad Bledsoe, interpellato dal New York Times, offre una versione diametralmente opposta. Sostiene di essere stato contattato dallo stesso Rockoff, preoccupato che il suo lavoro andasse perduto o danneggiato. “Voleva che preservassi la sua eredità e che fossi il custode del suo lascito”, ha dichiarato Bledsoe, dipingendosi come un salvatore piuttosto che un approfittatore.
La verità, avvolta nella nebbia del tempo e della memoria frammentata di Rockoff, è difficile da dipanare. Ciò che è certo è che un pezzo fondamentale della storia del XX secolo, le immagini crude e senza filtri di un fotografo che ha rischiato la vita innumerevoli volte per documentare la brutalità del regime dei Khmer Rossi, è ora in un limbo, la sua accessibilità e conservazione incerte. Un’intera eredità visiva, che appartiene non solo a Rockoff ma alla memoria collettiva, rischia di svanire.
