FERMO – Un grido d’allarme potente e chiaro si leva dalle Marche, e a lanciarlo è il leader della CGIL, Maurizio Landini. Durante un’assemblea con i lavoratori a Casette d’Ete, nel cuore di un distretto produttivo simbolo del Made in Italy, il segretario generale ha tracciato un quadro a tinte fosche del futuro industriale del Paese. “C’è un problema di politica industriale, di investimenti”, ha esordito Landini, sottolineando la necessità improrogabile di “aumentare gli investimenti sia dei privati che del pubblico” per dare una prospettiva di sopravvivenza e sviluppo al sistema produttivo nazionale.
Settori strategici al bivio: siderurgia, automotive ed elettrodomestici in affanno
Le parole di Landini non sono astratte, ma affondano le radici in una realtà economica preoccupante che tocca pilastri dell’economia italiana. “Penso alla siderurgia, penso all’automobile, all’elettrodomestico”, ha elencato il sindacalista, citando settori che da tempo mostrano segni di sofferenza. La crisi di questi comparti, un tempo fiore all’occhiello dell’industria nazionale, rischia di avere effetti a catena devastanti sull’occupazione e sulla competitività dell’intero sistema Paese. La mappa delle crisi industriali si estende da nord a sud, con migliaia di posti di lavoro a rischio e un progressivo svuotamento di interi territori produttivi. Anche settori considerati di eccellenza, come quello della moda e del lusso, non sono immuni da “segnali di crisi e di rallentamento”, ha aggiunto Landini, rivolgendosi direttamente ai lavoratori del distretto calzaturiero fermano.
Questa situazione, secondo il leader della CGIL, impone una riflessione profonda sui modelli di sviluppo da adottare. Non è più sufficiente affidarsi unicamente alle strategie imprenditoriali; è cruciale il ruolo dello Stato attraverso “politiche industriali” mirate e un intervento pubblico che orienti e favorisca gli investimenti nella giusta direzione.
L’accusa alle imprese: l’80% dei profitti agli azionisti, non in investimenti
Il punto più critico del discorso di Landini riguarda la gestione dei profitti da parte delle grandi aziende italiane. Citando uno studio di Mediobanca sui bilanci di 2.000 imprese, il segretario ha snocciolato un dato che ha il sapore di un’accusa: “Dal 2014 ad oggi, l’80% dei profitti delle imprese più grandi, pubbliche e private, non sono stati investiti ma redistribuiti agli azionisti”. Questa dinamica, confermata anche da altre analisi, evidenzia una “disaffezione imprenditoriale” e un travaso di ricchezza dal lavoro al capitale, penalizzando pesantemente i salari e la capacità di innovazione delle aziende stesse.
Di fronte a questo scenario, la proposta di Landini è netta e provocatoria: incentivare fiscalmente chi reinveste. “Chi fa dei profitti, se li reinveste dentro la sua azienda per creare lavoro, io sono anche quasi per dire non te li faccio tassare perché li reinvesti. Ma se la maggioranza dei profitti li utilizzi da distribuire, secondo me ci devi pagare più tasse di quello che pago io come lavoratore”. Una logica di “tassazione etica” che mira a premiare i comportamenti virtuosi e a penalizzare la pura rendita finanziaria, per reindirizzare le risorse verso l’economia reale, l’ammodernamento degli impianti e la creazione di occupazione stabile e di qualità.
Un contesto complesso: tra PNRR, transizione ecologica e sfide globali
L’appello di Landini si inserisce in un contesto economico nazionale e internazionale estremamente complesso. Da un lato, il Governo attuale, tramite il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT), sta cercando di delineare una nuova politica industriale, puntando su strumenti come il piano Transizione 5.0 e le risorse del PNRR per sostenere la digitalizzazione e la sostenibilità. Dall’altro, persistono debolezze strutturali, come un livello di investimenti pubblici e privati, soprattutto in Ricerca & Sviluppo, ancora troppo basso rispetto ai principali competitor europei.
La transizione ecologica e digitale, pur rappresentando un’enorme opportunità, richiede ingenti investimenti e una visione strategica che, secondo i sindacati, al momento manca. Il rischio è che, senza un deciso cambio di rotta nella politica industriale e nella gestione dei profitti aziendali, l’Italia perda ulteriore terreno competitivo, aggravando le disuguaglianze sociali e mettendo a repentaglio il proprio futuro industriale.
