L’escalation di violenza e la disperata richiesta d’aiuto
“Ho avuto paura di morire anche io. Mio fratello ha tentato di uccidermi. Quello che ha fatto a Sharon poteva succedere a me. Ne sono convinta”. Queste le parole strazianti di Awa, sorella di Moussa Sangare, l’uomo che ha confessato l’omicidio di Sharon Verzeni, in un’intervista al Corriere della Sera.
Awa racconta di un’escalation di violenza, di un crescendo di aggressioni e minacce che hanno segnato la vita della famiglia. Lei e la madre Kadiatou hanno cercato in tutti i modi di aiutare Moussa, ma le loro richieste d’aiuto sono rimaste inascoltate.
“È stata un’escalation — dice – Io e mia madre Kadiatou abbiamo fatto di tutto per aiutarlo. Non volevamo credere a quello che ha confessato. Con mamma siamo scoppiate in lacrime. Forse però se ci avessero ascoltate Sharon sarebbe ancora viva. Il nostro pensiero va a lei e alla sua famiglia”.
La famiglia ha denunciato la violenza di Moussa per ben tre volte: “La prima nel 2023, l’ultima a maggio. Danneggiamenti, violenza domestica, maltrattamenti. Eravamo in pericolo. Nessuno si è mosso. Sia io sia il mio avvocato abbiamo scritto al sindaco, agli assistenti sociali. I segnali c’erano tutti. Volevamo aiutarlo a liberarsi dalla dipendenza. Ci abbiamo provato: hanno detto che doveva essere lui a presentarsi volontariamente. Non lo ha fatto”.
Il cambiamento di Moussa e la spirale di violenza
Awa descrive un cambiamento radicale nel comportamento di Moussa, a partire dal suo ritorno dall’estero nel 2019. “Moussa ci ha detto che aveva fatto uso di droghe sintetiche. Non era più lui”.
La violenza di Moussa è diventata sempre più frequente e grave. “Per qualche anno abbiamo tentato di contenerlo. Nel 2023, ad aprile, mia mamma ha avuto un ictus. La situazione è degenerata: quella notte ha tentato di buttare giù la porta. Voleva i soldi. Tre mesi dopo ha aperto il gas, incendiando la cucina”.
A novembre, la situazione è precipitata: “Mi ha minacciato con parole pesanti. Mi ha detto ‘Ti ammazzo’, mi ha gettato oggetti addosso. Abbiamo chiesto aiuto ai servizi sociali e al sindaco. Siamo state lasciate sole”.
Il 9 maggio scorso, Moussa ha aggredito Awa con un coltello: “Mi ha puntato contro un coltello, prendendomi alle spalle. Ero in cucina, ascoltavo musica con le cuffie. È scattato il codice rosso e il suo allontanamento. Abbiamo scoperto che aveva occupato la casa al piano terra”.
L’inutilità degli appelli e le responsabilità
Nonostante le numerose denunce e richieste d’aiuto, la situazione non è migliorata. “Non è stato fatto nulla. Forse un accertamento sanitario andava richiesto. Nessuno si è presentato, nessuno ha controllato”.
Awa si interroga sulla responsabilità delle istituzioni e sulla mancata presa in carico di Moussa. “Se ci avessero ascoltate, Sharon sarebbe ancora viva”, conclude con un dolore profondo.
Riflessioni sulla violenza domestica e la responsabilità delle istituzioni
La tragica storia di Sharon Verzeni e la testimonianza della sorella di Moussa Sangare mettono in luce la gravità della violenza domestica e la necessità di un intervento tempestivo e incisivo da parte delle istituzioni. La famiglia di Moussa ha cercato in tutti i modi di chiedere aiuto, ma le loro richieste sono state ignorate. La responsabilità di questo tragico evento non può essere solo attribuita a Moussa, ma anche alle istituzioni che non sono riuscite a fornire il supporto necessario alla famiglia e a proteggere Sharon. È fondamentale che la società si impegni a combattere la violenza domestica, garantendo alle vittime un supporto concreto e alle autorità la capacità di intervenire in modo efficace per prevenire tragedie come questa.