Un Booker a stelle e strisce?
Il Booker Prize, uno dei più prestigiosi premi letterari britannici, si ritrova ancora una volta al centro di una controversia. La longlist di quest’anno, che comprende 13 romanzi, vede ben sei autori americani in lizza, un numero che ha suscitato polemiche tra gli osservatori britannici. La preoccupazione principale riguarda la possibile dominanza di autori americani, che sembrerebbe sempre più marcata nel panorama letterario del premio. Il Booker, istituito nel 1969, era inizialmente riservato ad autori britannici, irlandesi, dei Paesi del Commonwealth e dello Zimbabwe. Nel 2014, gli organizzatori hanno ampliato i criteri di ammissione, aprendo le porte a qualsiasi opera scritta in lingua inglese. Questa apertura ha indubbiamente contribuito ad ampliare l’orizzonte del premio, ma ha anche sollevato dubbi sulla sua identità e sulla sua capacità di rappresentare appieno la diversità letteraria internazionale.
Una coorte di voci globali
Nonostante le polemiche, la giuria del premio, presieduta dal ceramista e scrittore Edmund de Waal, ha sottolineato la ricchezza e la diversità della longlist. “La lista di quest’anno comprende una coorte di voci globali, voci forti e voci nuove”, ha dichiarato de Waal. Tra gli autori americani in lizza, spiccano Percival Everett con “James”, una rivisitazione del classico “Huckleberry Finn” dal punto di vista dello schiavo liberato Jim, Rachel Kushner con “Creation Lake” e Richard Powers con “Playground”. Oltre agli autori americani, la longlist comprende due britannici: Samantha Harvey con “Orbital”, un romanzo che racconta un giorno nella vita di sei astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale, e Sarah Perry con “Enlightment”, una storia d’amore infelice ambientata in una città inglese. A completare la lista, troviamo autori di diverse nazionalità: Hisham Matar, con doppia cittadinanza libica e britannica, con “My Friends”, un romanzo basato sulla storia vera di un agguato di uomini armati nel 1984 contro una manifestazione davanti all’ambasciata di Tripoli a Londra; Rita Bullwinkel con “Headshot”, ambientato nel mondo della boxe femminile; Claire Messud con “This Strange Eventful History”, una saga di famiglia che esplora la storia coloniale della Francia; Tommy Orange con “Wandering Stars”, che racconta l’impatto della colonizzazione su una famiglia di nativi americani; Yael van der Wouden, la prima olandese nella storia del premio, con “The Safekeep”; Colin Barrett, irlandese, con “Wild Houses”; Charlotte Wood, australiana, con “Stone Yard Devotional”; e Anne Michaels, canadese, con “Held”.
Un premio in bilico tra tradizione e globalizzazione
Il Booker Prize si trova quindi a dover affrontare una sfida delicata: conciliare la sua tradizione britannica con la sua crescente apertura alla globalizzazione. La forte presenza di autori americani nella longlist di quest’anno solleva interrogativi sulla capacità del premio di rappresentare appieno la diversità letteraria internazionale. La giuria avrà il compito di selezionare i sei finalisti in settembre, e il premio da 50 mila sterline sarà assegnato il 12 novembre in una cerimonia a Londra. Sarà interessante vedere se il premio premierà un autore americano, confermando la tendenza verso una maggiore presenza transatlantica, o se sceglierà un autore di un’altra nazionalità, dimostrando la sua capacità di abbracciare la diversità letteraria in tutte le sue sfumature.
Un premio in evoluzione
Il Booker Prize è un premio in continua evoluzione, che riflette i cambiamenti del panorama letterario internazionale. L’apertura a autori di qualsiasi nazionalità ha sicuramente ampliato l’orizzonte del premio, ma ha anche sollevato dubbi sulla sua identità e sulla sua capacità di rappresentare appieno la diversità letteraria. Sarà interessante vedere come il premio si evolverà in futuro, e se riuscirà a trovare un equilibrio tra la sua tradizione britannica e la sua crescente apertura alla globalizzazione.