Le acque del grande fiume, il Po, che nel 1951 ruppero gli argini portando devastazione e morte, furono la tragica culla del suo talento letterario. Da quell’esperienza come giovane volontario tra le genti del Polesine colpite dalla catastrofe, Gian Antonio Cibotto (Rovigo, 8 maggio 1925 – Rovigo, 12 agosto 2017) trasse l’ispirazione per il suo primo capolavoro, ‘Cronache dell’alluvione’ (1954), un diario intimo e potente che lo consacrò come il cantore di una terra aspra e magnifica. Oggi, nel centenario della sua nascita, la sua città natale, Rovigo, gli rende omaggio con una mostra evento a Palazzo Roncale, “Il gusto del racconto”, visitabile fino al 29 giugno 2026.
Promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in collaborazione con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, la mostra è curata da Francesco Jori, da un’idea di Sergio Campagnolo, e diretta da Alessia Vedova. L’esposizione non è una semplice celebrazione, ma un’immersione profonda nell’universo di un intellettuale complesso e poliedrico, che ha attraversato con la sua presenza erudita e popolare la seconda metà del Novecento e l’inizio del nuovo millennio. “Sono uno del Delta padano, niente in comune con il Veneto”, amava dire di sé, per sottolineare un’identità forgiata dall’acqua e dalla terra, un’appartenenza viscerale a un paesaggio che è stato al contempo geografia fisica e morale.
Un percorso tra vita e opere
L’itinerario espositivo a Palazzo Roncale si snoda attraverso le tappe fondamentali della vita e della carriera di Cibotto. Si parte dagli esordi, segnati dall’esperienza dell’alluvione che ne definì la vocazione di testimone e narratore. Si prosegue con il suo intenso impegno nel giornalismo e nella critica letteraria e teatrale, che lo vide collaborare con testate prestigiose come ‘Il Resto del Carlino’, ‘Il Gazzettino’ e, soprattutto, ‘La Fiera Letteraria’, di cui divenne un pilastro durante gli anni della Dolce Vita a Roma. In quel periodo romano, strinse amicizia con alcune delle figure più importanti della cultura italiana, da Pier Paolo Pasolini a Leonardo Sciascia, da Alberto Moravia a Eugenio Montale, da Federico Fellini a Luchino Visconti.
La mostra esplora anche la sua produzione narrativa, mettendo in luce opere fondamentali come ‘Scano Boa’ (1961), romanzo ispirato a un fatto di cronaca che racconta la dura vita dei pescatori del Delta. Quest’opera divenne un film omonimo diretto da Renato Dall’Ara, con una giovanissima Carla Gravina, e vide la collaborazione di un allora sconosciuto Carlo Rambaldi, futuro maestro degli effetti speciali e vincitore di tre premi Oscar, che realizzò gli storioni meccanici per la pellicola.
L’uomo dietro lo scrittore
Curata con l’intento di essere “una mostra di Cibotto, non su Cibotto”, l’esposizione dà voce allo stesso scrittore attraverso filmati, registrazioni e scritti. Emerge il ritratto di un uomo complesso, segnato da un’infanzia solitaria in collegio e da un rapporto di amore-odio con la sua Rovigo. Un intellettuale dotato di una pungente ironia, ma anche di un profondo attaccamento alla sua gente, che sapeva osservare con uno sguardo acuto e partecipe. Il percorso espositivo riunisce materiali inediti, fotografie, documenti personali, carteggi e installazioni multimediali che svelano anche la sua dimensione privata: le abitudini, i luoghi della memoria, la solitudine degli ultimi anni e l’affetto per la sua cagnolina Fosca.
Simboli iconici della sua esistenza sono presenti in mostra: la sua mitica Mini Minor, con cui percorreva instancabilmente le strade del Veneto alla ricerca di storie, e la sua macchina da scrivere “Lettera 22”, testimone silenziosa della sua prolifica attività. Un’intera sezione è dedicata alla sua leggendaria biblioteca di 37.000 volumi, custodita nella sua casa di viale Trieste, purtroppo demolita nel 2023, che rappresentava il suo rifugio e il cuore pulsante della sua erudizione.
Un’eredità da riscoprire
Gian Antonio Cibotto se n’è andato nel 2017, a 92 anni, “in tempo per non vedere un Veneto stravolto dalla modernità”, come osservano i curatori. Ha lasciato un’eredità culturale immensa, quella di un intellettuale che ha saputo raccontare le “storie minime” con un profondo senso morale e un’urgenza di testimonianza. La mostra di Rovigo è un’occasione preziosa per riscoprire la sua voce, per riassaporare quel “gusto del racconto” che ha reso la sua opera un punto di riferimento imprescindibile per comprendere l’anima del Polesine e, più in generale, le trasformazioni della società italiana nel dopoguerra. Un invito a leggere o rileggere un autore che, come ha scritto Cesare De Michelis, era “ricco di un vivo senso morale”, capace di trasformare la cronaca in letteratura e un lembo di terra tra due fiumi in un universo narrativo.
