Quale velo sottile separa l’impeto creativo di un artista dalla sua vocazione di custode della bellezza altrui? Esiste una linea di demarcazione, o forse un ponte, tra il gesto intimo del dipingere e l’impegno pubblico nella difesa del patrimonio culturale? La figura di Antonio Bernardini, artista e uomo delle istituzioni, incarna magnificamente questa dualità, un’affascinante simbiosi che oggi, a 35 anni dalla sua scomparsa, viene finalmente celebrata e riscoperta. Lo fa attraverso un progetto espositivo di ampio respiro, “Antonio Bernardini: la scoperta di un artista”, inaugurato il 28 novembre a Roma, nelle prestigiose sale di Palazzo Mattei di Paganica, sede dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, dove resterà visitabile fino al 12 dicembre.
L’evento, curato con acume da Francesco Picca, Direttore del Museo Civico di Barletta, non è solo una mostra, ma un vero e proprio atto di restituzione storica e culturale. Un viaggio che, dopo la tappa capitolina, approderà “a casa”, a Barletta, la città che ha profondamente segnato il percorso umano e professionale di Bernardini. Dal 24 gennaio al 27 febbraio 2026, sarà infatti Palazzo San Domenico a ospitare la seconda edizione dell’esposizione, rinsaldando quel legame indissolubile tra l’artista e la sua terra.
Un doppio binario: l’artista e il funzionario
Per comprendere appieno la portata di questa riscoperta, è essenziale delineare il doppio binario su cui si è mossa l’esistenza di Antonio Bernardini. Da un lato, l’artista, con la sua ricerca pittorica personale, dall’altro, l’uomo delle istituzioni, che dal 1965 ha ricoperto con dedizione e rigore il ruolo di direttore del Museo Civico e Pinacoteca “Giuseppe De Nittis” di Barletta. Una posizione che per lui non fu mai una semplice carica amministrativa, ma una vera e propria missione civile.
Il suo incarico coincise con un momento storico cruciale per il patrimonio cittadino: il rientro di numerose opere d’arte che, per proteggerle dai bombardamenti bellici, erano state nascoste in scantinati. Bernardini ne comprese immediatamente l’inestimabile valore e si adoperò con tenacia per il loro recupero e la loro salvaguardia, lottando contro il degrado e l’indifferenza istituzionale. Come sottolineato dal nipote omonimo, l’ambasciatore Antonio Bernardini, fondatore di Sestante Consulting e sponsor del progetto, suo zio era una “personalità unica”, un difensore delle istituzioni culturali che mirava a rendere il museo un ente vivo e pulsante, con un’altissima funzione sociale.
Il percorso espositivo: un dialogo tra colore e memoria
La mostra romana presenta al pubblico circa trenta opere, un corpus eterogeneo che include dipinti a olio, disegni, grafiche, ma anche fotografie, lettere personali e manoscritti. Questo prezioso materiale d’archivio permette di entrare nel mondo più intimo dell’artista, svelandone il processo creativo e il travaglio interiore. Il percorso espositivo segue un ordine cronologico, un racconto visivo che si dipana lungo diversi decenni.
- Gli anni Quaranta: le prime opere sono dedicate al paesaggio, tele intrise della luce mediterranea e di un silenzio quasi metafisico che caratterizza la sua terra.
- Gli anni Cinquanta e Settanta: rappresentano la piena maturità artistica. Qui, le suggestioni realistiche della sua città e i ritratti delle persone a lui care si fondono con elementi di sorprendente modernità, come la serie dedicata alle automobili, trasfigurate in una dimensione quasi onirica.
- Gli anni Ottanta: l’ultima fase della sua ricerca lo vede approdare al simbolismo e all’informale, pur senza mai abbandonare una solida e riconoscibile base figurativa.
Come spiega il curatore Francesco Picca, “le opere di Antonio Bernardini si distinguono per la ricchissima e vivace cromia che si unisce spesso al medio-grande formato”. I soggetti sembrano quasi “sfondare i limiti fisici della tela per instaurare un dialogo con l’osservatore”. Un uso audace del colore, con una predilezione per il blu, diventa cifra stilistica e veicolo di emozioni profonde. Una scelta cromatica che, secondo il nipote, tradisce “il travaglio interiore di un uomo apparentemente pacato che riversa sulla tela la sua irruente creatività”.
“Io Amo Vivere”: la scoperta in un documentario
Elemento centrale e catalizzatore dell’intero progetto è il documentario “Antonio Bernardini: Io Amo Vivere”, realizzato dalla pronipote dell’artista, la regista Paola Bernardini. Un’opera nata quasi per caso, durante il periodo sospeso della pandemia. Tornata a Barletta dopo un’esperienza all’estero, la regista ha riscoperto un patrimonio di opere conservate in cantina, un “segreto di famiglia” che attendeva solo di essere svelato.
“Mi hanno sempre parlato di zio Tonino”, racconta Paola Bernardini, “ma non conoscevo davvero la portata del suo lavoro”. La pandemia ha offerto l’occasione per rallentare, per scendere quelle scale e sollevare quella serranda. Da quell’intuizione è nato il desiderio di restituire al pubblico non solo l’artista, ma anche l’uomo, un “outsider che ha mantenuto la sua autenticità e passione”. Il film diventa così la chiave di volta per comprendere l’eredità artistica e personale di una figura straordinaria, un uomo che, come suggerisce il titolo, amava profondamente la vita in tutte le sue complesse sfaccettature.
Questa mostra, dunque, non è un semplice omaggio postumo, ma una vera e propria operazione di riscoperta. È l’occasione per conoscere un artista capace di trasformare il quotidiano in una narrazione visiva vibrante e per rendere onore a un uomo che ha dedicato la sua vita alla tutela della bellezza, con un senso del dovere e una passione che oggi appaiono, a tutti gli effetti, eroici e rivoluzionari.
