Washington D.C. – La tensione tra l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump e la Corte Penale Internazionale (CPI) ha raggiunto un nuovo punto di rottura. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters, che cita un alto dirigente del governo USA, la Casa Bianca avrebbe posto un vero e proprio ultimatum al tribunale dell’Aia, minacciando un’escalation di sanzioni qualora non venissero accolte tre specifiche e controverse richieste. Si tratta di una mossa che non solo riaccende lo storico scetticismo americano verso la Corte, ma che rischia di minare le fondamenta stesse del sistema di giustizia penale internazionale.
Le tre condizioni di Washington
Le richieste avanzate dagli Stati Uniti sono chiare e dirette, e toccano nervi scoperti delle più recenti e delicate inchieste della CPI. Nello specifico, l’amministrazione Trump esige:
- Modifica dello Statuto di Roma: La richiesta più clamorosa è quella di emendare il documento fondativo della Corte per garantire un’immunità di fatto al Presidente degli Stati Uniti e ai suoi più alti funzionari da qualsiasi indagine o procedimento futuro.
- Stop alle indagini su Israele: Washington chiede l’immediata interruzione delle indagini a carico dei leader israeliani in relazione alla guerra di Gaza. Nel novembre scorso, i giudici della CPI avevano emesso mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, accusandoli di presunti crimini di guerra e contro l’umanità.
- Chiusura del “dossier Afghanistan”: Viene richiesta la chiusura formale e definitiva di una precedente inchiesta sulle azioni compiute dai militari statunitensi e da agenti della CIA in Afghanistan a partire dal 2003. L’indagine era stata autorizzata nel marzo 2020 per fare luce su presunti atti di tortura, trattamenti crudeli ed esecuzioni extragiudiziali.
Un funzionario dell’amministrazione, parlando in condizione di anonimato, ha confermato che queste richieste sono state comunicate sia direttamente alla Corte sia ai Paesi membri, tra cui figurano anche stretti alleati degli USA. La minaccia è esplicita: in caso di mancato accoglimento, Washington non solo potrebbe colpire con nuove sanzioni singoli funzionari della CPI, ma potrebbe arrivare a sanzionare direttamente la Corte stessa come istituzione.
Una relazione storicamente complessa
L’ostilità degli Stati Uniti nei confronti della Corte Penale Internazionale non è una novità. Sebbene l’amministrazione Clinton avesse firmato in extremis lo Statuto di Roma nel 2000, gli USA non hanno mai proceduto alla ratifica, mantenendo una posizione critica e distante. Diverse amministrazioni, sia repubblicane che democratiche, hanno espresso preoccupazione per la possibile violazione della sovranità nazionale, sostenendo che un tribunale internazionale non dovrebbe avere giurisdizione sui cittadini di un Paese che non ha aderito al trattato.
Questa tensione si è acuita in modo significativo durante la presidenza Trump. Già nel 2020, in risposta all’avvio delle indagini sui fatti in Afghanistan, Trump aveva autorizzato sanzioni economiche e restrizioni di viaggio contro l’allora procuratrice capo Fatou Bensouda e altri funzionari della Corte. Tali misure, definite dalla stessa CPI come “un attacco senza precedenti” e un tentativo di minarne l’indipendenza, erano state poi revocate dall’amministrazione Biden.
La recente reintroduzione delle sanzioni e le nuove minacce rappresentano quindi un’ulteriore, e forse più grave, escalation. La decisione sembra legata anche ai recenti sviluppi dell’indagine sul conflitto a Gaza, che ha portato la Corte a spiccare mandati di arresto non solo contro i leader di Hamas, ma anche contro vertici del governo israeliano, storico alleato di Washington.
Il contesto delle indagini nel mirino
Per comprendere appieno la portata delle richieste statunitensi, è utile analizzare le due principali inchieste coinvolte.
- L’indagine in Afghanistan: Avviata formalmente nel 2020 dopo un lungo iter, questa inchiesta si concentra sui presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi da tutte le parti in conflitto in Afghanistan dal 1° maggio 2003. Nel mirino della procuratrice non ci sono solo i Talebani e le forze governative afghane, ma anche le forze armate statunitensi e gli agenti della CIA, sospettati di torture e trattamenti inumani nei confronti di detenuti, anche nei cosiddetti “black sites” in Europa.
- L’indagine in Palestina: La giurisdizione della Corte sui territori palestinesi è stata confermata nel 2021, aprendo la strada a indagini su presunti crimini commessi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. L’escalation del conflitto seguita agli attacchi del 7 ottobre 2023 ha portato il procuratore Karim Khan a richiedere e ottenere mandati di arresto per i leader di Hamas e per il premier e il ministro della Difesa israeliani, accusati di crimini come l’uso della fame come metodo di guerra e attacchi intenzionali contro la popolazione civile.
Le reazioni internazionali e le implicazioni future
La posizione degli Stati Uniti ha suscitato profonda preoccupazione nella comunità internazionale. In passato, azioni simili da parte di Washington avevano provocato la condanna di Nazioni Unite, Unione Europea e di decine di Paesi membri della Corte, che avevano espresso solidarietà al tribunale e ribadito il loro impegno a difenderne l’indipendenza. Anche organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International hanno definito le sanzioni un “passo brutale” e un “tradimento della nostra comune umanità”.
Gli esperti di diritto internazionale sottolineano come queste pressioni rischino di creare un pericoloso precedente, incoraggiando altri Stati a sfidare la giurisdizione della Corte e a garantire l’impunità per i crimini più gravi. Le minacce non solo mettono in difficoltà il lavoro quotidiano di giudici e procuratori, ma mirano a indebolire la credibilità e l’efficacia di un’istituzione nata proprio per perseguire i responsabili di genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, agendo come tribunale di ultima istanza quando i sistemi giudiziari nazionali non possono o non vogliono intervenire.
La richiesta di modificare lo Statuto di Roma per creare un’eccezione “su misura” per gli Stati Uniti appare come un tentativo di smantellare il principio di uguaglianza di fronte alla legge internazionale. La comunità globale si trova ora a un bivio: cedere alle pressioni di una superpotenza o riaffermare con forza l’importanza di una giustizia penale internazionale indipendente e imparziale, baluardo contro l’impunità per le atrocità che offendono la coscienza dell’umanità intera.
