A più di un anno dal suo annuncio, il controverso accordo tra Italia e Albania per la gestione dei flussi migratori, fortemente voluto dalla premier Giorgia Meloni, si presenta come un cantiere aperto denso di criticità e lontano dagli obiettivi prefissati. Tra costi esorbitanti, numeri irrisori e una serie di stop da parte della magistratura, il “modello Albania” stenta a decollare, lasciando aperti numerosi interrogativi sulla sua efficacia e legittimità. Il governo, tuttavia, non demorde e punta ora sul recente via libera del Consiglio UE Affari Interni a una nuova stretta sui rimpatri per dare slancio a un progetto finora impantanato.

Un’ambizione da 36mila persone all’anno, la realtà è di poche centinaia

Le premesse, al momento della firma del protocollo il 6 novembre 2023, erano a dir poco ambiziose. L’intesa prevedeva la creazione di due strutture in territorio albanese, a Shëngjin e Gjadër, per gestire le procedure accelerate di frontiera e di rimpatrio. L’obiettivo era quello di processare fino a 3.000 migranti al mese, per un totale di 36.000 persone all’anno. La realtà, però, si è rivelata drasticamente diversa. Ad oggi, le persone transitate nelle strutture albanesi sono solo poche centinaia e i rimpatri effettivi si contano nell’ordine di poche decine. A fine ottobre 2025, nel centro di Gjadër erano presenti solo 25 migranti, un numero che stride con la capienza totale prevista e con le previsioni iniziali.

Le strutture, realizzate a spese italiane, comprendono un hotspot nel porto di Shëngjin per le procedure di identificazione e due centri a Gjadër: uno per richiedenti asilo da 880 posti e un Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) da 144 posti, oltre a una piccola area con funzione penitenziaria. Tuttavia, dall’aprile 2025, a seguito delle difficoltà operative e legali, la struttura di Gjadër funziona di fatto solo come CPR, ospitando migranti già presenti sul territorio italiano e destinatari di un decreto di espulsione.

I costi miliardari di un progetto quasi inattivo

A fronte di risultati così esigui, i costi del progetto appaiono sproporzionati. La spesa prevista per i primi cinque anni si aggira intorno a una cifra che potrebbe sfiorare il miliardo di euro. Secondo stime ufficiali, il costo si attesta a circa 653 milioni di euro in 5 anni. Queste cifre includono non solo la costruzione e la gestione delle strutture, ma anche una serie di costi “nascosti” legati alla delocalizzazione, come le spese per il noleggio di navi per il trasporto dei migranti (circa 95 milioni in cinque anni), le diarie e le spese di vitto, alloggio e trasferta per il personale italiano impiegato (oltre 250 milioni di euro in cinque anni), e altre spese accessorie. Critiche sono state sollevate sul fatto che questi fondi avrebbero potuto essere impiegati diversamente, ad esempio nel sistema sanitario nazionale.

Lo scoglio della giustizia: i “Paesi sicuri” e le sentenze dei giudici

Il principale ostacolo all’operatività del piano si è rivelato di natura legale. Diversi giudici, sia del Tribunale che della Corte d’Appello di Roma, hanno ripetutamente bloccato i trasferimenti e non convalidato i trattenimenti dei migranti in Albania. Il nodo cruciale è la questione dei “Paesi di origine sicuri”. Le procedure accelerate di frontiera, fulcro del protocollo, si possono applicare solo a migranti provenienti da nazioni inserite in un’apposita lista governativa. Tuttavia, i magistrati italiani, in linea con una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, hanno stabilito che non è possibile riconoscere come sicuri Paesi come l’Egitto o il Bangladesh, da cui provenivano i primi migranti trasferiti, se non viene garantita una protezione generalizzata all’intera popolazione. Una sentenza della CGUE dell’agosto 2025 ha ulteriormente rafforzato questo principio, stabilendo che la designazione di un Paese terzo come sicuro da parte di un governo deve poter essere sottoposta al vaglio di un giudice. Di conseguenza, i migranti trattenuti sono stati trasferiti in Italia.

La Corte d’Appello di Roma ha inoltre sollevato una nuova questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, mettendo in dubbio la competenza stessa dell’Italia a firmare un simile accordo, dato che la materia dell’asilo è ampiamente regolata a livello europeo.

La speranza del Nuovo Patto UE e le prospettive future

Il governo italiano ora ripone le sue speranze nel nuovo quadro normativo europeo. Recentemente, il Consiglio Affari Interni dell’UE ha dato il via libera a una serie di misure che fanno parte del Nuovo Patto su Migrazione e Asilo, la cui piena entrata in vigore è prevista per il 12 giugno 2026. Queste norme prevedono una semplificazione e accelerazione delle procedure di rimpatrio e, soprattutto, consentono agli Stati membri di istituire “hub” per i rimpatri in Paesi terzi. Inoltre, è stata approvata una lista europea di Paesi di origine sicuri che include anche nazioni come Egitto e Bangladesh.

Secondo il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, questa “svolta” legittimerebbe il “modello Albania”, facendolo da apripista per future iniziative europee. Tuttavia, la strada non è ancora spianata. L’accordo in seno al Consiglio UE non è stato unanime e ora dovrà essere negoziato con il Parlamento Europeo. Giuristi ed esperti sollevano dubbi sul fatto che queste nuove norme possano superare le obiezioni legali evidenziate dalla Corte di Giustizia UE, prefigurando una nuova stagione di ricorsi.

Nel frattempo, il progetto albanese resta un esperimento controverso, definito da organizzazioni per i diritti umani come “illegale, disumano e impraticabile” e criticato anche dalla Fondazione Migrantes della CEI come un’iniziativa “ai margini della democrazia”. Mentre la politica attende gli sviluppi europei, le strutture di Gjadër e Shëngjin rimangono il simbolo di un piano ambizioso ma, al momento, largamente fallimentare.

Di veritas

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