Trieste – A quasi quattro anni da quel freddo 14 dicembre 2021, giorno della sua scomparsa, il nome di Liliana Resinovich torna a risuonare con forza nelle strade di Trieste. L’11 dicembre, a partire dalle ore 9, familiari, amici e semplici cittadini si daranno appuntamento per un sit-in pacifico e civile nei pressi del Palazzo di Giustizia. L’iniziativa, intitolata “Dignità e verità per Liliana”, vuole essere un monito contro l’oblio e un appello accorato affinché venga fatta piena luce su una vicenda che presenta ancora troppi lati oscuri.
Un grido di giustizia contro il tempo che passa
L’obiettivo del presidio è chiaro e potente: “riaffermare con forza la necessità di restituire dignità e verità a una donna, a una cittadina italiana, vittima, secondo elementi chiari e gravi, di un omicidio”. Queste le parole contenute nella nota diffusa dagli organizzatori, che sottolineano come il dolore sia ancora vivo e le domande, a distanza di anni, siano rimaste senza risposta. Il messaggio lanciato è inequivocabile: “la giustizia in ritardo penalizza le vittime e agevola i carnefici”. Un’accusa velata ma decisa verso un’indagine che, secondo i promotori, ha proceduto senza svolte decisive per troppo tempo, lasciando la comunità e i cari di Liliana in un limbo di incertezza e sofferenza.
Il caso Resinovich: un mistero lungo quattro anni
La storia di Liliana Resinovich, 63 anni, ha scosso profondamente la comunità triestina e l’opinione pubblica nazionale. Scomparsa di casa il 14 dicembre 2021, il suo corpo venne ritrovato il 5 gennaio 2022 nel boschetto dell’ex ospedale psichiatrico di San Giovanni. Il cadavere era chiuso in due grandi sacchi, con altri due sacchetti di plastica sulla testa, legati con un cordino. Fin da subito, le circostanze del ritrovamento hanno alimentato dubbi e perplessità.
Inizialmente, l’ipotesi privilegiata dagli inquirenti fu quella del suicidio. Una tesi che, tuttavia, non ha mai convinto pienamente i familiari della donna, in particolare il fratello Sergio, né l’amico speciale Claudio Sterpin. La loro tenacia ha portato alla riapertura del caso e a nuove, approfondite indagini disposte dal Gip, che ha respinto la richiesta di archiviazione.
La svolta: dall’ipotesi di suicidio all’indagine per omicidio
La vera svolta è arrivata con una nuova e dettagliata consulenza medico-legale, che ha smontato l’ipotesi del gesto volontario. La perizia ha evidenziato elementi compatibili con un’aggressione e un soffocamento, indicando come probabile data della morte lo stesso giorno della scomparsa. Elementi come contusioni, lesioni e una frattura vertebrale hanno rafforzato la pista dell’omicidio. Questo ha portato, nell’aprile 2025, all’iscrizione nel registro degli indagati del marito di Liliana, Sebastiano Visintin, con l’ipotesi di reato di omicidio.
Il caso si è ulteriormente complicato con il dibattito tra periti e consulenti. Da una parte la relazione del medico legale Fulvio Costantinides e del radiologo Fabio Cavalli del 2022 che propendeva per il suicidio, dall’altra la nuova autopsia della dottoressa Cristina Cattaneo che ha evidenziato la possibile responsabilità di terzi. Attualmente, è attesa anche una pronuncia della Cassazione riguardo la richiesta di una terza perizia medico-legale avanzata dalla difesa di Visintin.
Elementi controversi e domande aperte
L’inchiesta è costellata di elementi controversi che continuano ad alimentare il mistero. Tra questi, la formattazione della scheda di memoria di una GoPro appartenente a Visintin, avvenuta nel giugno 2023, in concomitanza con la riapertura delle indagini. Un altro punto interrogativo riguarda il DNA maschile rinvenuto sul cordino utilizzato per legare i sacchetti, che non appartiene né al marito né all’amico Claudio Sterpin, lasciando aperta la questione su chi possa aver maneggiato quel reperto. A ciò si aggiungono le analisi su possibili tracce di DNA e impronte su tutti i reperti sequestrati, inclusi macchinari per affilare coltelli trovati in casa di Visintin.
Il sit-in dell’11 dicembre, promosso tra gli altri da Gabriella Micheli, ex vicina di casa della donna, non è quindi solo un atto di memoria. È un’azione concreta per mantenere alta l’attenzione mediatica e giudiziaria su una ferita che, per Trieste e per chi amava Liliana, non può e non deve essere dimenticata. È la voce di una comunità che, a quasi quattro anni di distanza, chiede risposte chiare e definitive, perché la verità, per Liliana, è un diritto non più rimandabile.
