Bangkok/Phnom Penh – Le speranze di una pace duratura tra Thailandia e Cambogia sono state bruscamente interrotte nelle ultime 48 ore. Una fragile tregua, raggiunta a ottobre con la mediazione del presidente statunitense Donald Trump, è crollata sotto il peso di nuovi e violenti scontri armati lungo la disputata linea di confine. Raid aerei, scambi di artiglieria e combattimenti a terra hanno riacceso un conflitto secolare, provocando vittime da entrambe le parti e costringendo decine di migliaia di civili a una fuga disperata dalle proprie case.

Un bilancio pesante e accuse reciproche

Le informazioni sul numero esatto delle vittime sono ancora frammentarie e contrastanti, con un rimpallo di accuse tra i due governi. Fonti ufficiali cambogiane riportano l’uccisione di almeno sette civili a causa dei bombardamenti thailandesi nelle province di Preah Vihear e Oddar Meanchey. Da parte sua, la Thailandia ha confermato la morte di almeno tre soldati e il ferimento di diversi altri in attacchi attribuiti alle forze cambogiane nella provincia di Ubon Ratchathani. Entrambi i Paesi si accusano a vicenda di aver iniziato le ostilità, rendendo difficile stabilire con certezza la dinamica degli eventi.

Bangkok sostiene di aver risposto con raid aerei mirati contro postazioni militari per neutralizzare una minaccia alla propria sicurezza, dopo che le truppe cambogiane avrebbero aperto il fuoco. Phnom Penh, invece, nega di aver attaccato per prima e definisce le azioni thailandesi come una “grave aggressione militare non provocata”, annunciando di voler portare la questione davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

L’esodo dei civili e la crisi umanitaria

La conseguenza più drammatica della ripresa delle ostilità è l’emergenza umanitaria in corso. Decine, se non centinaia di migliaia di persone, sono state costrette ad abbandonare i propri villaggi su entrambi i lati del confine. I media locali mostrano immagini drammatiche di lunghe code di auto, camion e qualsiasi mezzo di fortuna utilizzato dalle famiglie per cercare rifugio in aree più sicure. Le autorità thailandesi hanno disposto l’evacuazione di circa 40.000 abitanti da 86 villaggi. Anche in Cambogia, migliaia di famiglie sono in fuga, creando una situazione di grave incertezza e bisogno.

Le radici storiche di un conflitto irrisolto

La contesa tra Thailandia e Cambogia ha radici profonde, legate principalmente alla demarcazione del confine, tracciato in epoca coloniale francese nel 1907 e mai pienamente accettato da Bangkok. Il cuore della disputa riguarda la sovranità su alcune aree specifiche, in particolare quelle che circondano antichi templi Khmer come il Preah Vihear, patrimonio dell’UNESCO assegnato alla Cambogia da una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel 1962, verdetto che però non ha mai placato del tutto le rivendicazioni nazionaliste. A queste tensioni storiche si aggiungono motivazioni economiche, come il controllo di aree strategiche e, più di recente, i piani thailandesi di aprire nuovi casinò al confine, visti come una minaccia agli interessi economici cambogiani nella regione.

Il fallimento della diplomazia e le reazioni internazionali

Il “Kuala Lumpur Peace Accord”, firmato il 26 ottobre, sembra ormai carta straccia. L’accordo, che prevedeva una de-escalation militare e la risoluzione pacifica delle dispute, è stato vanificato dalla sfiducia reciproca e, secondo alcuni analisti, da calcoli di politica interna. Il governo del premier thailandese Anutin Charnvirakul, in un momento di debolezza politica interna, potrebbe usare la retorica nazionalista per consolidare il consenso in vista di possibili elezioni anticipate.

La comunità internazionale osserva con crescente preoccupazione. Le Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno lanciato appelli urgenti alla moderazione e al ritorno al dialogo, chiedendo a entrambe le parti di rispettare gli impegni presi. Tuttavia, le dichiarazioni dei leader non lasciano presagire una rapida de-escalation. Il premier thailandese non ha escluso ulteriori azioni militari “in caso di necessità”, mentre la sua controparte cambogiana, Hun Manet, ha ribadito che il suo Paese non permetterà alcuna violazione della propria sovranità. La stabilità dell’intera regione del Sud-est asiatico è ora appesa a un filo, con il rischio che un conflitto localizzato possa degenerare in una crisi ben più ampia.

Di atlante

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