Rovigo – Un intellettuale “straniero a sé stesso”, perennemente in bilico tra l’amore viscerale per la sua terra e un’inquietudine che lo spingeva altrove, ma sempre radicato in quel “mare d’erba” del Delta padano che definiva la sua unica, vera patria. Rovigo celebra il centenario della nascita di Gian Antonio Cibotto (1925-2017), una delle figure più complesse e significative della cultura italiana del secondo Novecento, con una grande mostra a Palazzo Roncale intitolata “Gian Antonio Cibotto (1925-2017) – Il gusto del racconto”. L’esposizione, visitabile fino al 29 giugno 2026, non è solo un omaggio, ma un’immersione profonda nell’universo di un uomo che fu scrittore, giornalista, critico teatrale e acuto osservatore della società.
L’alluvione del ’51: la ferita che generò un capolavoro
La storia di Cibotto come narratore ha un’origine precisa, un evento catastrofico che segnò indelebilmente la sua terra e la sua anima: la devastante alluvione del Polesine del 14 novembre 1951. Quel giovane volontario, impegnato nei soccorsi tra le province di Rovigo e Vicenza, vide con i propri occhi la furia del Po, la disperazione della sua gente, la perdita e la resilienza. Da quell’esperienza traumatica, trasfusa nelle pagine di un diario intimo e dolente, nacque tre anni dopo il suo primo capolavoro, “Cronache dell’alluvione” (1954). Un’opera che non è solo un resoconto giornalistico, ma un’inchiesta letteraria e il romanzo di un popolo ferito, un testo che ancora oggi rappresenta la testimonianza più preziosa di quei giorni tragici.
Un percorso espositivo “di Cibotto, non su Cibotto”
La mostra, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, è stata curata da Francesco Jori, da un’idea di Sergio Campagnolo. L’intento, come sottolineato dal curatore, è stato quello di creare “una mostra non su Cibotto, ma di Cibotto”. È la voce stessa dello scrittore, attraverso i suoi scritti, aforismi e spezzoni del docufilm “Il viaggio di Toni”, a guidare il visitatore in un percorso che ne svela la complessa personalità. Un itinerario che parte dagli esordi segnati dall’alluvione per poi esplorare le molteplici sfaccettature della sua carriera.
- Il giornalismo e la letteratura: Una produzione prolifica che lo vide collaborare con testate importanti come Il Resto del Carlino, Il Gazzettino e la rivista La Fiera Letteraria, di cui divenne un pilastro.
- Il cinema e il teatro: La sua passione per il palcoscenico lo portò a dirigere il Teatro stabile del Veneto Carlo Goldoni e a essere un apprezzato critico. Il suo romanzo “Scano Boa”, ispirato a un fatto di cronaca e definito una versione fluviale de “Il vecchio e il mare”, divenne un film con una giovane Carla Gravina e vide la collaborazione di un allora sconosciuto Carlo Rambaldi, futuro maestro degli effetti speciali, che creò gli storioni meccanici per la pellicola.
- La promozione culturale: Fu una figura centrale in eventi di rilievo nazionale, come il Premio Campiello, di cui fece parte della Giuria dei Letterati sin dalla prima edizione.
Tra Roma e il Polesine: un’esistenza errante
La vita di Cibotto fu segnata da un’infanzia e un’adolescenza difficili, con un padre severo e gli anni passati in collegio. Negli anni della Dolce Vita si trasferì a Roma, dove strinse amicizia con le personalità più in vista del panorama culturale dell’epoca: da Pier Paolo Pasolini a Leonardo Sciascia, da Alberto Moravia a Eugenio Montale, passando per Federico Fellini e Luchino Visconti. Eppure, quell’effervescente mondo romano non riuscì a placare la sua inquietudine. Il richiamo del Polesine, di quel “mondo di terra e acque”, era troppo forte. Un legame ambivalente, un rapporto di amore-odio con la sua Rovigo, ma un’appartenenza totale e radicale al Delta del Po, l’unico luogo dove, come scriveva, poteva contemplare l’infinito.
L’eredità di un “cantore” solitario
Tornato in Veneto alla fine degli anni Settanta, si chiuse sempre più in un isolamento volontario, circondato dalla sua mitica biblioteca di 37.000 volumi. Se ne andò nel 2017, a 92 anni, “in tempo per non vedere un Veneto stravolto dalla modernità”. La sua casa in viale Trieste, ormai fatiscente, è stata demolita, ma la città non lo dimentica, dedicandogli un parco e ora questa importante esposizione. La mostra a Palazzo Roncale è dunque un’occasione preziosa per riscoprire la sua cifra letteraria, quel “fil rouge” di storie minime raccolte con passione a bordo della sua Mini Minor, spinto, come scrisse Cesare De Michelis, “dall’urgenza di testimoniare per rendere giustizia”. Un’opportunità per rileggere un autore che ha saputo raccontare la sua terra e le sue trasformazioni con ironia, malinconia e un profondo senso morale.
