Un segnale d’allarme forte e chiaro, quasi un monito, si è levato dal G7 Finanze tenutosi in Canada. Al centro delle preoccupazioni dei grandi dell’economia mondiale c’è un tema che intreccia geopolitica, industria e sicurezza nazionale: il crescente e asfissiante controllo della Cina sulle materie prime critiche, unito a una sovraccapacità produttiva che rischia di inondare i mercati globali. Fonti del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) hanno descritto il “pericolo cinese” come una minaccia che “sta diventando una valanga”, sottolineando una preoccupazione ormai condivisa a livello internazionale.

Il doppio nodo strategico: materie critiche e overcapacity

Il vertice ha messo a nudo una duplice vulnerabilità per le economie occidentali. Da un lato, la dipendenza strategica da Pechino per l’approvvigionamento di risorse indispensabili per la transizione verde e digitale; dall’altro, la concorrenza di un’industria, pesantemente sovvenzionata dallo Stato, che produce a ritmi insostenibili per il mercato interno, riversando l’eccesso sui mercati internazionali a prezzi predatori.

A innescare il dibattito è stata la presentazione di uno studio canadese che ha fotografato una realtà allarmante: minerali come cobalto, litio, grafite e le cosiddette terre rare sono “ormai tutte in mano cinese”. Queste non sono materie prime qualunque. Sono gli elementi fondamentali per la produzione di:

  • Batterie per veicoli elettrici: il litio, il cobalto e il nichel sono componenti essenziali.
  • Tecnologie per l’energia rinnovabile: le terre rare sono cruciali per i magneti permanenti delle turbine eoliche.
  • Dispositivi elettronici e semiconduttori: dalla grafite al silicio, sono alla base di smartphone, computer e di tutta l’infrastruttura digitale.
  • Settore della difesa e aerospaziale: molte di queste risorse sono insostituibili per applicazioni militari e ad alta tecnologia.

La Cina non si limita a dominare la fase di estrazione, spesso condotta tramite investimenti strategici in Africa e Sud America, ma controlla in modo quasi monopolistico le fasi ancora più cruciali della raffinazione e della lavorazione. Si stima che Pechino processi circa il 65% del cobalto mondiale, il 58% del litio e oltre l’80% delle terre rare, creando un collo di bottiglia che conferisce al gigante asiatico un enorme potere negoziale e, potenzialmente, un’arma di ricatto geopolitico.

La “valanga” della sovraccapacità produttiva

Il secondo fronte dell’allarme G7 riguarda il fenomeno dell’“overcapacity”, o sovraccapacità produttiva. Con questo termine si intende la politica industriale cinese, supportata da ingenti sussidi statali, che porta le aziende a produrre volumi di beni (come acciaio, pannelli solari, veicoli elettrici e, più recentemente, robot industriali) di gran lunga superiori alla domanda interna.

Questa eccedenza viene poi esportata a livello globale a prezzi estremamente competitivi, con i quali le aziende occidentali, che operano in un regime di libero mercato, faticano a competere. Il risultato è una distorsione del mercato globale che, secondo i ministri del G7, mina le industrie, i lavoratori e la resilienza economica dei loro Paesi. Come sottolineato in passato anche dal ministro Giorgetti, questa “politica di invasione” commerciale rappresenta un pericolo concreto per la stabilità dell’intero Occidente, non solo dell’Europa.

La reazione del G7: da Giorgetti a un fronte comune

Il Ministro dell’Economia italiano, Giancarlo Giorgetti, è stato tra i primi a sollevare la questione in ambito G7 già molti mesi fa. Ora, la sua preoccupazione è diventata un sentimento corale. Durante la riunione in Canada, anche altri Paesi hanno espresso interventi allarmati, dimostrando come la percezione della minaccia sia ormai trasversale e sentita.

L’unità mostrata dai leader del G7 suggerisce l’intenzione di passare a contromisure concrete. Sul tavolo ci sono diverse opzioni, già in parte esplorate:

  1. Diversificazione delle catene di approvvigionamento: stringere nuove partnership strategiche con Paesi ricchi di risorse ma alternativi alla Cina, come il Canada stesso, l’Australia o nazioni in Sud America e Africa.
  2. Investimenti interni (reshoring): incentivare l’apertura di miniere e, soprattutto, di impianti di raffinazione sul suolo occidentale per ridurre la dipendenza dall’estero.
  3. Strumenti di difesa commerciale: l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno già iniziato a muoversi in questa direzione, ad esempio con l’introduzione di dazi sui veicoli elettrici cinesi per contrastare i sussidi statali ritenuti sleali.
  4. Creazione di alleanze: iniziative come il “Buyers’ Club” proposto dal Canada mirano a coordinare gli acquisti di materie critiche tra Paesi alleati per creare un mercato alternativo e contrastare il monopolio di Pechino.

La sfida è complessa. Si tratta di proteggere la propria sicurezza economica e industriale senza innescare una guerra commerciale su larga scala con la seconda economia del mondo. L’obiettivo, come dichiarato dai leader, non è il “decoupling” (disaccoppiamento) totale, ma un più strategico “de-risking”, ovvero una riduzione mirata dei rischi e delle dipendenze più critiche.

Di atlante

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