TRIESTE – Una nuova tragedia scuote Trieste e riaccende i riflettori sulla drammatica situazione dei migranti che, al termine della rotta balcanica, trovano rifugi di fortuna in condizioni disumane. Nel pomeriggio di mercoledì 3 dicembre, il corpo senza vita di un giovane è stato rinvenuto all’interno di un edificio abbandonato del Porto Vecchio. La vittima è Hichem Billal Magoura, un cittadino algerino di 32 anni. Il ritrovamento è avvenuto a poche ore di distanza da una vasta operazione di sgombero che aveva interessato i magazzini 2 e 2A, dove circa 150 persone, per lo più richiedenti asilo, avevano trovato un riparo precario.
La scoperta e le prime indagini
A dare l’allarme, intorno alle 16:30 di mercoledì, è stato un connazionale della vittima, che condivideva con lui lo stesso giaciglio di fortuna in uno stanzino dell’edificio 116, ex sede dei servizi portuali, di fronte ai magazzini appena sgomberati. Sul posto sono immediatamente intervenuti gli agenti della Squadra Mobile e della Polizia Scientifica per i rilievi del caso. Secondo le prime ricostruzioni, il giovane sarebbe morto nel sonno, poiché è stato trovato ancora avvolto nelle coperte. Sebbene le prime ipotesi propendano per un decesso per cause naturali, forse un malore o il freddo intenso, la Procura della Repubblica di Trieste ha aperto un fascicolo per fare piena luce sulle circostanze della morte. Sono state disposte l’autopsia e gli esami tossicologici per fugare ogni dubbio e accertare se vi sia stato il coinvolgimento di terze persone o l’assunzione di sostanze.
Secondo quanto riferito dalla Questura, Hichem Billal Magoura era irregolare sul territorio italiano e aveva alcuni precedenti. Fonti del consorzio di accoglienza ICS, tuttavia, sostengono che fosse un richiedente asilo. Un uomo che dormiva nella stessa stanza ha raccontato che il 32enne era uscito dal carcere da una decina di giorni e aveva trovato riparo nel magazzino.
Il contesto: lo sgombero del Porto Vecchio
Il ritrovamento del corpo si inserisce nel contesto di un’operazione straordinaria di sgombero coordinata dalla Questura, che ha visto la partecipazione di Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia Locale. L’intervento, scattato nella mattinata di mercoledì, mirava a mettere in sicurezza i magazzini 2 e 2A, da tempo occupati da migranti in condizioni igienico-sanitarie precarie e teatro di recenti incendi. Circa 140 dei richiedenti asilo identificati durante l’operazione sono stati destinati al trasferimento in strutture di accoglienza fuori regione, principalmente in Toscana.
L’operazione ha suscitato le critiche di diverse organizzazioni umanitarie, tra cui il Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS), che l’ha definita una “misura-spot, priva di una strategia strutturale”, sottolineando come il problema venga semplicemente spostato e non risolto. L’ICS ha inoltre denunciato la mancata informazione e il mancato trasferimento di almeno quaranta persone che non si trovavano nei magazzini al momento dell’intervento.
Una scia di tragedie e l’appello alla solidarietà
La morte del giovane algerino è solo l’ultimo di una serie di tragici eventi che hanno colpito i migranti in Friuli Venezia Giulia. Negli ultimi giorni, altre tre persone hanno perso la vita in circostanze simili tra Udine e Pordenone, a causa del freddo o delle esalazioni di monossido di carbonio in rifugi di fortuna.
In risposta a queste tragedie, la Diocesi di Trieste, su proposta della Comunità di Sant’Egidio, ha organizzato una veglia di preghiera per ricordare le vittime. L’iniziativa, come sottolineato dal Vescovo, non vuole essere solo un gesto religioso, ma un invito a tutta la comunità a interrogarsi sulle condizioni di chi arriva in città cercando sicurezza e trova invece abbandono e morte.
Trieste rappresenta per molti la fine della cosiddetta “rotta balcanica”, un viaggio estenuante e pericoloso lungo migliaia di chilometri. Le strutture di accoglienza sono spesso sature e molti, rimasti esclusi, sono costretti a vivere in condizioni disumane in luoghi come il Porto Vecchio o l’area del “Silos”, esposti al freddo, alle malattie e a ogni tipo di rischio. La solidarietà di numerose associazioni e volontari cerca di tamponare le falle di un sistema che fatica a dare risposte strutturali a un fenomeno complesso, lasciando troppe vite in una condizione di estrema vulnerabilità.
