Milano – Una fitta nebbia, durata un quarto di secolo, si è finalmente diradata su uno dei più efferati “cold case” di criminalità organizzata in Lombardia. I Carabinieri del Nucleo Investigativo di Milano, sotto la guida del colonnello Antonio Coppola e del tenente colonnello Fabio Rufino, hanno dato un volto e un nome ai responsabili dell’omicidio di Nicola Vivaldo, ucciso con quattro colpi di pistola al volto il 23 febbraio del 2000. Un’operazione coordinata dal pm della Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) Alessandra Cerreti, che ha portato all’emissione di sei ordinanze di custodia cautelare in carcere firmate dal gip Tommaso Perna.
La Notte dell’Agguato: un’Esecuzione Mafiosa
Erano circa le 23:30 di una fredda sera di febbraio quando Nicola Vivaldo, all’epoca cinquantenne con precedenti per associazione mafiosa, lesioni e rapina, fu freddato mentre parcheggiava la sua auto, una Hyundai, in via Balzarotti a Mazzo di Rho, alle porte di Milano. L’agguato fu spietato: i killer si avvicinarono, aprirono lo sportello e spararono a bruciapelo con una semiautomatica calibro 7.65, probabilmente munita di silenziatore. Cinque colpi in totale, quattro dei quali raggiunsero Vivaldo al volto, senza lasciargli scampo. Fin da subito, le modalità dell’omicidio non lasciarono dubbi: si trattava di una vera e propria esecuzione di stampo mafioso.
Il Movente: la “Colpa” di Essere un Informatore
Le indagini, riaperte e portate avanti con tenacia, hanno svelato il perché di quella condanna a morte. Nicola Vivaldo era considerato un “infame”, un confidente dei carabinieri. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, i vertici della ‘ndrangheta lo ritenevano responsabile di soffiate che avevano portato a importanti arresti, tra cui quello del latitante Francesco Aloi, genero di uno dei boss. Un tradimento intollerabile per le logiche mafiose, che doveva essere lavato con il sangue. La conferma, secondo le carte dell’inchiesta, sarebbe arrivata anche da Carmelo Novella, all’epoca figura di spicco della ‘ndrangheta in Lombardia, che avrebbe avallato la sentenza: “era un confidente e doveva essere ucciso”.
I Volti del Commando: Mandanti ed Esecutori
Grazie alle indagini e, soprattutto, alle rivelazioni di un collaboratore di giustizia, gli inquirenti hanno ricostruito l’intera catena di comando e di esecuzione. L’ordinanza di custodia cautelare ha colpito figure di primo piano della criminalità organizzata:
- Vincenzo Gallace, 78 anni, ritenuto il capo dell’omonima ‘ndrina di Guardavalle (Catanzaro), una delle più potenti e influenti cosche, con ramificazioni in Lombardia, Lazio e Toscana. Avrebbe dato l’ordine di uccidere.
- Vincenzo Rispoli, 62 anni, considerato il boss della Locale di ‘ndrangheta di Legnano-Lonate Pozzolo, già coinvolto nella storica inchiesta “Infinito”. Anche lui indicato come mandante.
- Massimo Rosi, 57 anni, ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio. Per lui, quell’esecuzione sarebbe stata una sorta di “consacrazione” per dimostrare la sua affidabilità ai vertici del clan.
- Stefano Scatolini, 58 anni, che avrebbe agito come autista del commando, accompagnando Rosi sul luogo del delitto a bordo di una Golf grigia.
- Bruno Gallace, 53 anni, che avrebbe procurato le armi utilizzate per l’agguato.
- Stefano Sanfilippo, 80 anni, l’unico a non essere già detenuto al momento della notifica. Avrebbe svolto un ruolo cruciale, quello del “basista”. Amico di Vivaldo e padrino di battesimo di uno dei suoi figli, avrebbe tradito la sua fiducia fornendo al clan informazioni decisive sulle sue abitudini e sulla sua abitazione.
Al momento della notifica, Gallace, Rispoli, Rosi e Scatolini erano già in carcere per altri reati, a testimonianza del loro lungo e radicato percorso criminale.
La Svolta dalle Parole del Pentito
A squarciare il velo di omertà è stato Emanuele De Castro, ex braccio destro del boss Vincenzo Rispoli e oggi collaboratore di giustizia. Le sue dichiarazioni, raccolte a partire dal 2019, sono state decisive per chiudere il cerchio. De Castro, che partecipò direttamente all’esecuzione, ha fornito agli investigatori un resoconto dettagliato della pianificazione e dell’esecuzione dell’omicidio, svelando ruoli e responsabilità. La sua collaborazione ha permesso di risolvere non solo questo cold case, ma anche altri delitti irrisolti, come l’omicidio di Cataldo Aloisio nel 2008, dimostrando l’importanza cruciale dei pentiti nella lotta alla criminalità organizzata.
La Presenza Radicata della ‘Ndrangheta in Lombardia
Questo caso riaccende i riflettori sulla pervasività della ‘ndrangheta nel Nord Italia, e in particolare in Lombardia. La ‘ndrina Gallace, originaria di Guardavalle, è un esempio di come le cosche calabresi abbiano esteso da decenni i loro interessi economici e criminali ben oltre i confini regionali, infiltrandosi nel tessuto economico e sociale. L’alleanza tra la cosca calabrese e la “locale” di Legnano-Lonate Pozzolo per questo omicidio dimostra la struttura federata e al contempo unitaria dell’organizzazione, capace di muovere i suoi uomini e decretare sentenze di morte a centinaia di chilometri di distanza dalla terra d’origine. L’operazione dei Carabinieri di Milano non è solo la risoluzione di un vecchio caso, ma un importante colpo alla struttura militare della ‘ndrangheta in Lombardia.
