Un incontro inaspettato a Roma
“Era una polacca, una kapò di Auschwitz che ho riconosciuto quasi subito quando mi ha fermato in un negozio a Roma e mi ha detto ‘tu sei Edith di Auschwitz’. Mi è preso un colpo. Mi sono voltata e ho visto la donna dal cappotto verde”. Con queste parole, cariche di emozione e memoria, la scrittrice e poetessa Edith Bruck ha raccontato a Bruno Vespa, durante la trasmissione ‘Cinque Minuti’ su Rai1, un incontro tanto casuale quanto sconvolgente. La donna, una kapò di nome Lola, aveva ispirato uno dei suoi libri più noti, ‘La donna dal cappotto verde’, ora ripubblicato da La nave di Teseo. L’incontro, avvenuto anni dopo la fine della guerra, ha riaperto ferite mai del tutto rimarginate, riportando alla luce gli orrori vissuti nel campo di concentramento di Auschwitz.
Il dilemma della denuncia
Lola, la kapò, temeva di essere denunciata da Edith Bruck, che però si trovò di fronte a un dilemma morale: “Non ero convinta di denunciare perché non potevo sapere cosa aveva vissuto lei che era stata deportata due anni prima di noi ebrei-ungheresi. Non mi piace denunciare, non ho mai denunciato nessuna kapò. Ne ho incontrata anche un’altra, in Israele”. Questa decisione, maturata nel silenzio e nella riflessione, rivela la profonda umanità e il desiderio di comprensione della Bruck, che preferisce non cedere alla vendetta, ma cercare di comprendere le complesse dinamiche che si sono consumate durante l’Olocausto.
La selezione ad Auschwitz e il gesto di un soldato tedesco
Edith Bruck, deportata nel 1944 all’età di 13 anni insieme alla sua famiglia, ha ricordato il momento della selezione ad Auschwitz, un evento che ha segnato indelebilmente la sua esistenza: “Mi hanno buttato con mia madre a sinistra che voleva dire la camera a gas immediatamente, invece a destra i lavori forzati. Avevo 13 anni il programma era che non dovessi sopravvivere. L’ultimo tedesco a sinistra si è chinato su di me e mi ha sussurrato vai a destra, vai a destra. Io non volevo andare. Allora non sapevo cosa fossero sinistra e destra, sia chiaro. Non volevo lasciare la mamma, mi sono aggrappata con tutte le mie forze, poi lei inginocchiata ha supplicato il tedesco di lasciare l’ultimo dei suoi figli, la più piccola. Lui ha preso il calcio del fucile, mia madre è caduta e poi mi ha battuto il fucile sul collo, mi ha trascinato, ero aggrappata a mia madre con le unghie, mi ha dato delle botte fino a che non mi sono trovata a destra. Mi ha dato la possibilità di salvarmi”. Un gesto inatteso, una scintilla di umanità in un contesto di barbarie, che ha consentito alla Bruck di sopravvivere all’orrore del campo di sterminio.
Il fumo e la crudele verità
La Bruck ha raccontato anche un episodio particolarmente doloroso: “Ho pianto per tre settimane per mia mamma. Il kapò del blocco mi diceva ‘non disturbare i tedeschi, piantala, basta!’. Alla fine non ne poteva più e ha detto ‘Vieni ti faccio vedere io dove è tua madre’. Mi ha portato all’ingresso del blocco e mi ha detto: ‘vedi quel fumo, è lì tua mamma. Era un po’ grassa mi ha chiesto? Si, un pochino. Allora hanno fatto sapone come della mia. E creperete tutti voi come noi che siamo qua da due anni'”. Parole crude, che descrivono la disumanizzazione e la brutalità del sistema concentrazionario nazista.
La testimonianza come dovere morale
Edith Bruck, ebrea ungherese naturalizzata italiana, moglie del poeta e regista Nelo Risi, sottolinea che “da Auschwitz non si può mai uscire. Si porta dentro tutta la vita”. Nonostante il dolore e la fatica, la scrittrice si dedica da oltre 64 anni a testimoniare nelle scuole e attraverso i suoi libri, consapevole che “non si sa mai abbastanza, non si saprà mai abbastanza. Come diceva Primo Levi puoi raccontare ma non potranno forse mai comprendere”. La sua testimonianza è un monito costante contro l’oblio e l’indifferenza.
La paura dell’oblio
Alla domanda di Bruno Vespa su chi parlerà della Shoah quando i sopravvissuti non ci saranno più, Edith Bruck risponde: “Come dice Liliana Segre sarà un oblio totale. Ma io credo che qualcosa rimarrà, almeno della mia testimonianza. Andrò avanti fino all’ultimo respiro, è un dovere morale raccontare”. La sua voce, carica di sofferenza e speranza, continua a risuonare come un appello alla memoria e alla responsabilità collettiva, affinché gli orrori del passato non si ripetano mai più.
Un’eredità di memoria e umanità
La storia di Edith Bruck è un potente monito sulla fragilità della condizione umana e sulla necessità di custodire la memoria del passato. Il suo incontro con la kapò di Auschwitz a Roma, il suo rifiuto di cedere alla vendetta e la sua incessante opera di testimonianza sono un esempio di coraggio e umanità. La sua voce, che si alza contro l’oblio e l’indifferenza, ci ricorda che la lotta contro l’odio e la discriminazione è un impegno costante, che coinvolge tutti noi. La sua eredità è un invito a riflettere sulle responsabilità individuali e collettive, affinché la barbarie del passato non si ripeta mai più.